Comune di Giurdignano

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Giurdignano è un luogo dalle antichissime origini. Frequentato in epoca romana, come testimoniano i resti di una necropoli di età imperiale del II-III sec. d.C. rinvenuta in località Cantalupi, divenne uno dei luoghi d'elezione dei monaci italo-greci.

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30 Agosto 2023

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Descrizione

Giurdignano è un luogo dalle antichissime origini. Frequentato in epoca romana, come testimoniano i resti di una necropoli di età imperiale del II-III secolo dopo Cristo rinvenuta in località Cantalupi, divenne uno dei luoghi d'elezione dei monaci italo-greci che qui hanno lasciato preziosissime testimonianze. In seguito fu un ambito feudo con castello. Nel 1192 Tancredi D'Altavilla, Conte di Lecce e Re di Sicilia infeuda Giurdignano a Niccolò De Noha a cui succede, il figlio Guglielmo che nel 1269 viene privato del feudo da Carlo 1° D'Angiò che lo dona a Erardo Fremi da cui passa nel 1272 a Filippo De Tuzziaco. A lui successe il figlio Ezelino, quest'ultimo morì subito dopo ed i parenti non vollero venire in Italia per prendere possesso dei suoi beni. Per tanto - con regio diploma del 23 gennaio del 1273 - i beni furono devoluti in toto alla Regia Corte. Fu Filippo d'Angiò ad infeudare Giurdignano al suo medico personale Giacomo Pipino, feudo confermato poi da Re Carlo II d'Angiò. Nel 1323 a Giacomo Pipino subentrò Guidone Sambiasi che sposò in prime nozze Filippa di Roberto Cerasoli da cui ebbe sei figli: Letizia, Megalia, Violante, Roberto (che fu Barone di Melpignano e Torchiarolo) Rinaldo, Filippo (che fu Barone di San Vito e Torchiarolo e sposò in seconde nozze, nel 1334, Caterina dell'Antoglietta). A Guidone succedette Rinaldo che sposò Giovanna di Belloluogo, la loro figlia Antonella vendette infine il feudo, nel 1340 a Giovanni Filippo Santacroce. Nel 1373 Giovanni Filippo vendette Giurdignano a Giacomo Venturi, il quale nel 1349 aveva sposato Antonella Sambiasi. Alla sua morte gli succedette il figlio Leonardo detto "Monaco" il quale sposò Filippa Carmignano, uno dei loro figli, Roberto sposò Elisabetta Dell'Acaya. Fu Giovanni Antonio Orsini del Balzo a sottrarre il feudo ai Venturi per poi cederlo, nel 1439,a Margherita Dell'Acaya che lo acquistò per conto del figlio Buzio De Noha di cui era tutrice. Quest'ultimo ricevette la formale investitura del feudo di Giurdignano dal Re di Napoli Alfonso d'Aragona. Alla morte di Buzio (27/12/1466) gli succedette il figlio Antonello a cui il feudo fu confermato dalla Regia Corte il 15 settembre 1467. A lui successe il figlio Niccolò avuto dal matrimonio con Antonia di Raffaele Maremonti, la formale investitura avvenne nel 1472. Niccolò sposò Lucia Maremonti da cui nacque Giovanni Vincenzo che gli succedette. Per poi vendere Giurdignano a Giovanni Paolo Rondachi nel 1555. Il figlio di quest'ultimo Bernardino lo rivendette nel 1564 a Cesare De Ponte con patto de retrovendendo. Il feudo ritornò infatti a Bernardino Rondachi che lo vendette definitivamente nel 1568 a Giovanbattista Matino. Quest'ultimo morì nel 1579 e il feudo di Giurdignano passò al figlio Vittorio che - come risulta dall'atto notarile redatto da Notar Cesare Pandolfo il 2 novembre 1584 - lo vendette per 9.200 ducati di carlini d'argento, ma con patto de retrovendendo, a Scipione Santabarbara. Nel 1586 il feudo ritornò a Vittorio Matino che lo rivendette definitivamente e libero da ogni patto ad un suo creditore: Giovanni Bernardino Saetta. Non passano nemmeno dieci anni (1598) che Giovanni Bernardino Saetta rivende Giurdignano con patto de retrevendendo a scadenza decennale ad Orazio Vignes Barone di Pisignano. Il Saetta non esercitò il suo diritto de retrovendendo per cui il Barone Vignes vendette il 18 settembre 1597 a Niccolò Prototico per la somma di 6.900 ducati di carlini d'argento. Alla morte di Niccolò il feudo passò al primogenito Francesco che sposò nel 1622, Maria Castriota Scanderberg. Francesco morì l'8 settembre 1662, gli succedette Antonio, uno dei suoi otto figli. Antonio morì il 2 aprile 1680 e gli succedette il primogenito Giuseppe che sposò Eleonora Trane dei Duchi di Corigliano. Delle due figlie Antonia Maddalena gli succedette per poi sposare Carlo Alfarano Capece, Barone di Lucugnano e Conte di Ugento al quale portò in dote il feudo. Fu il secondogenito Antonio a succedere nel feudo, alla morte di quest'ultimo (1777) gli succedette il figlio Francesco. Alla sua morte (1793) gli succedette il figlio Benedetto l'ultimo signore di Giurdignano che si ritrovò nell'epoca dell'eversione dalla feudalità. Ancora Oggi, Giurdignano, conserva alcune delle più antiche tradizioni del Salento.

LE STRUTTURE MEGALITICHE 

Giurdignano è definito il giardino megalitico d’Italia in quanto vanta la più alta concentrazione di strutture megalitiche costituite da Dolmen e menhir. Il termine “Megalitico”, dal greco mega (grande) e lithos (pietra), è generalmente utilizzato per indicare le costruzioni megalitiche, manifestazioni dell’architettura preistorica caratterizzata da monumenti eretti con blocchi di pietra di grandi dimensioni, grossolanamente tagliati. Le testimonianze più antiche di tali strutture risalgono al Neolitico finale (IV millennio a.C.) e si prolungano sino all’età del Bronzo (1300-1200 a.C.). I tipi principali di costruzioni che si possono distinguere sono essenzialmente quattro: dolmen; menhir; cromlech (insieme di menhir che delimitano una superficie curva); allineamenti di pietre (serie di menhir disposti in modo lineare).La loro area di diffusione è molto vasta: dalle coste atlantiche dell'Europa alla Scandinavia, nell'Africa settentrionale, nel Mediterraneo, in Europa orientale fino al Caucaso e in Asia, in India, Corea e altre regioni dell'Estremo Oriente. A cosa servissero i megaliti giunti fino a noi e quale popolo per primo avrebbe intrapreso l’uso di erigerli è una questione controversa. Abbandonate le ipotesi che vedono come centri di diffusione la Bretagna o Creta o le isole dell’Egeo, oggi si ritiene che essi siano stati eretti autonomamente da popoli primitivi diversi, lontani tra di loro e in aree geografiche diverse. Difficile è individuare la loro funzione: punti di riferimento o indicatori di confini, centri di riti pagani, strumenti astronomici, tombe, altari. Circondati da un senso di mistero, sono stati oggetto di culto continuato nei tempi storici, tanto che la Chiesa, vedendo nei megaliti una sorta di residenza degli spiriti pagani, cercò di sopprimerli mediante leggi ed editti (l’imperatore Teodosio II nel 435 d.C. vietò i riti intorno alle pietre; Carlo Magno nel 780 ordinò la distruzione delle pietre venerate dalle popolazioni . Dopo inutili tentativi tali culti furono assorbiti nella religione ufficiale, divenendo simboli di cristianità. In Italia il fenomeno megalitico interessa regioni quali Liguria, Piemonte, Sardegna, Sicilia e Puglia, dove raggiunge il pieno sviluppo durante l’Età del Bronzo con la costruzione di dolmen e menhir. Il dolmen (dal bretone t(a)ol “tavola” e men “pietra”) risulta essere il più noto e diffuso tra i megaliti, ed è composto da una lastra litica orizzontale, sorretta da due o più pietre infisse verticalmente nel terreno (ortostati). Le prime ipotesi funzionali descrissero i dolmen come altari sacrificali. In seguito al rinvenimento, in alcune di queste strutture, di scheletri e materiale fittile si rafforzò l’ipotesi di una loro funzione sepolcrale, anche se non sempre essa rimase costante. Si possono distinguere vari tipi di dolmen: il Trilite, costituito da due lastre verticali e una orizzontale; la tomba a corridoio, che introduce ad una camera sepolcrale; il dolmen a galleria (alléecouverte), con suddivisioni interne della camera sepolcrale per mezzo di lastre litiche poste trasversalmente all’asse di costruzione. I dolmen potevano essere liberi o coperti da un tumulo in pietra e terra. In questo caso sono anche detti “specchie”, termine derivante dal latino “speculum” usato per descrivere un luogo di avvistamento, conferendo quindi a tali strutture una funzione di scoperta e di difesa. Tra le regioni italiane la Puglia è certamente la più ricca di tali megaliti, localizzati soprattutto in tre zone: la fascia costiera del barese, un’area a nord di Taranto, e, soprattutto, il Salento. La tipologia dei monumenti è abbastanza varia: si passa dai dolmen a galleria dell’entroterra di Bari e Taranto, realizzati con grandi lastre e in alcuni casi con suddivisioni interne della camera, alle piccole strutture rettangolari o poligonali del Salento, costituite da una sola cella e realizzate sia con blocchi che con lastre di pietra. In alcuni casi la camera funeraria è preceduta da un dromos, una sorta di corridoio che porta alla cella. Generalmente riferiti all’età del Bronzo, i dolmen presenti sul territorio pugliese sono ricavati dalle pietre calcaree locali, ossia carparo o pietra leccese, sono alti meno di un metro, tranne in qualche caso come quelli di Bisceglie e Corato, quasi tutti hanno l’accesso rivolto ad Oriente, secondo un asse Est-Ovest legato al sorgere e al tramontare del sole. Per questo tra il 1600 e il 1700 si formularono delle ipotesi che definirono tali strutture come centri di osservazione astronomica, al fine di controllare le fasi lunari, prevedere le eclissi e come un vero e proprio calendario solare su cui prender nota degli eventi celesti. Il menhir (dal basso bretone men "pietra", e hir "lungo") è un tipo di monumento megalitico costituito da una colonna monolitica, di forma quasi geometrica o irregolare, per lo più lasciata grezza, infissa verticalmente nel terreno, detta anche pietrafitta. Le dimensioni sono considerevolmente varie, tanto che nell’Europa settentrionale alcuni esemplari superano anche i 20 metri di altezza. Furono probabilmente eretti a partire dal Neolitico, anche se la lavorazione accurata della maggior parte di essi rimanda all’utilizzo di utensili adoperati nella più recente età del Ferro. Significato, funzione, destinazione dei menhir non sono ancora chiari: stele sepolcrali, segnali che delimitano un territorio, importanti punti di incontro o scontro tra popolazioni di diversi villaggi. Oggi l’opinione più diffusa, supportata dall’orientamento delle facce larghe, che guardano verso Est e verso Ovest e sempre illuminate dal sole dall’alba al tramonto, attribuisce a questi megaliti una funzione rituale/religiosa e li identifica come simulacri del culto del sole oppure come monumenti legati al culto della fertilità della dea-madre Terra, diffuso nel Neolitico. Alcuni studiosi attribuiscono l’origine dei menhir ad epoche più recenti, per esempio al tempo dei Romani, i quali li avrebbero utilizzati come segnali per la centuriazione romana da predisporre lungo i principali assi viari; secondo altri studi risalirebbero ad epoca medievale sia per le accurate tecniche di lavorazione che alcuni di essi presentano, sia per alcune associazioni archeologiche (verrebbe smentita in tal caso la teoria dei menhir preistorici successivamente cristianizzati). La regione Puglia è ricca di menhir, soprattutto nel Salento con delle differenze tipologiche tra le due aree. Quelli salentini presentano una forma geometrica associata ad una tecnica di lavorazione più accurata, hanno spigoli vivi o smussati, facce ben squadrate e sono quasi tutti in pietra leccese, materiale calcareo locale molto diffuso. Tutti sono incassati all’interno di buche scavate nella roccia con le facce larghe orientate ad Est e ad Ovest. Non ci sono certezze sulle funzioni di tali strutture e l’assenza di indagini archeologiche sistematiche sulle caratteristiche tipologiche e costruttive delle pietrefitte, accompagnate dall’assenza di tutela e conservazione delle stesse, non aiutano nella loro definizione. Oltre ai fenomeni di vandalismo perpetuati nei secoli ai danni dei menhir, si devono anche considerare i numerosi casi di reimpiego di questi pilastri in strutture rurali o urbane prive di alcuna connessione col contesto originario. Numerosi, poi, furono i menhir abbattuti in virtù di leggende popolari secondo le quali presso di essi era custodito un tesoro; altri furono distrutti verso la fine del XVIII secolo in seguito alla spietratura dei terreni per aumentare gli spazi coltivabili oppure per allargare le strade. Culti e riti legati alla “litolatria” (culto delle pietre) professati e diffusi in Puglia come in altre zone, vennero osteggiati dalla Chiesa che cercò di combatterli, intimando la distruzione di questi simulacri pagani. I deludenti risultati spinsero ad un cambio di strategia, finalizzata alla “cristianizzazione” dei menhir, attraverso l’imposizione del segno della croce sulle facce o collocando sulla sommità una croce in pietra o in ferro per mezzo di fori. Con l’apposizione della croce i menhir presero il nome di “Osanna” e spesso nelle immediate vicinanze vennero costruite delle chiese a rinsaldare ancora di più il legame tra il culto pagano e quello cristiano.

Ultimo aggiornamento: 29/11/2023, 09:59

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